Sono arrivata a Zanzibar da appena una settimana e già mi sembra sia passata una vita. È come se fossi in tutt’altra dimensione spazio-temporale rispetto all’Italia e alla vita che facevo fino a qualche giorno fa, come se fossi in un luogo indefinito del mondo e potrebbe essere qualsiasi giorno, mese o anno.
Da quando sono arrivata qui per svolgere un periodo di volontariato ogni mattina apro gli occhi e nella mia testa riecheggia una domanda: che cosa ci fai qui?
La prima sensazione è stata quella di aver preso una decisione avventata. Non è successo niente di particolare, niente che mi abbia particolarmente stranito ma subito è emersa la voce interiore pronta a mettere le mani avanti e a scoraggiare. Qualcuno forse lo chiama istinto di protezione o di conservazione, io a volte la reputo solo una grande rottura di scatole e ancora non ci vado troppo d’accordo.
Domenica scorsa ho passato la giornata davanti a un mare indescrivibile, di un azzurro quasi fosforescente e appena arrivata di fronte a quello spettacolo mi è venuto solo da piangere. Davanti a tutta quella bellezza mi sono chiesta come sia possibile che esistano altrettante brutture e ho ripetuto più volte di avere il paradiso davanti e l’inferno alle spalle. Per arrivare al mare ho sbagliato strada e seguendo le mappe offline che mi localizzavano in maniera approssimativa ho seguito dei sentieri interni tra le sterpaglie augurandomi che andasse tutto bene. Sono riuscita a orientarmi un poco con il consiglio che mi ha dato un signore cui ho chiesto informazioni: “segui i fili elettrici” ha suggerito. Ecco, mi sono detta, ho imparato una cosa nuova! In effetti non avevo mai pensato di fare riferimento alle linee dell’elettricità per trovare una strada e questo suggerimento mi ha fatto pensare alla possibilità di trovare punti di riferimento inaspettati rispetto alle strade che adesso mi sembra di avere completamente perduto. Si tratta solo di guardare da diverse prospettive, no? O magari di stupirsi con qualcosa che è proprio là davanti ai tuoi occhi ma a cui non hai mai fatto caso.
Così mi è tornato in mente il bellissimo libro di Keri Smith “Come diventare un esploratore del mondo” e il lavoro presentato per un esame universitario partendo da quel testo. Dovendo scegliere e realizzare un’esplorazione tra quelle proposte mi ero dedicata al “come vagare senza meta” seguendo uno dei desideri che avevo sempre avuto di perdermi per una città prendendo mezzi di trasporto a casaccio e gironzolando senza alcuna destinazione prefissata. In quel caso mi trovavo a Milano, ero uscita di casa una grigia domenica di dicembre lasciando a casa telefono e orologio e portando con me l’essenziale: la macchina digitale per documentare l’esplorazione con le immagini, bloc notes e penna per annotare pensieri e osservazioni, chiavi di casa.
In circa due ore a vagare senza meta a piedi e prendendo qualche autobus che mi ispirava ho sperimentato nel piccolo le stesse sensazioni che ritrovo spesso in viaggio e che ci sono ugualmente, ma smarrisco e dimentico, nel quotidiano. Alti e bassi, momenti di sconforto, bagliori e scintille improvvise che ridanno il sorriso, scoperte, tristezze e pensieri cupi, connessioni mentali, idee e intuizioni e poi ogni tanto di nuovo giù negli abissi, per perdermi totalmente e pian piano risalire.
Come ci stai nei contrasti?
Questa è un’altra delle domande che in contesti come questo vengono fuori a bussare alla mia porta. E io lo so che nei contrasti devo ancora imparare a starci, che tendo a navigare tra poli opposti ma il mezzo talvolta è ancora poco praticabile. Esplorando a piedi la cittadina nella quale mi trovo mi sono resa conto di come non ci sia una netta differenza e distinzione tra la parte locale e quella dedicata ai turisti. O meglio, da quel poco che ho visto finora si passa dall’una all’altra in una sorta di continuum in cui le due realtà sono lì, distinte ma comunicanti tra loro, a pochi passi l’una dall’altra.
Sono giorni in cui mi sento pesante, seriosa, in cui invidio la leggerezza di chi è qui con uno spirito diverso e pensa a prendere tutto il bello di questa esperienza. E più mi perdo in questi pensieri più sento che non mi piace questo confronto perché ancora una volta è come se mettessi da parte me, quella che sono, con anche le mie parti più riflessive, pesanti, difficili con cui stare per dare spazio a qualcosa che non mi appartiene. Perché anche io so di poter essere leggera e spensierata ma in una maniera che è solo mia e non è di certo uguale a quella degli altri. E non si tratta di cosa è giusto o sbagliato perché alla fine ci cadiamo tutti in questo tranello di osservatori e giudici di mondi e universi propri e altrui, si tratta di fare pace con l’idea che siamo imperfetti, fallibili, umani, composti sì da tante parti preziose che sappiamo apprezzare e da altrettante parti cupe e oscure con cui facciamo fatica a fare i conti.
“Fai con quel che hai”
è quello che mi dice di aver imparato al termine di questa esperienza una ragazza e in effetti mi sembra un mantra interessante per i momenti in cui siamo spinti a cambiare ossessivamente ciò che abbiamo scontrandoci spesso contro un muro. Perché è vero che a volte nella vita ci arrabattiamo con quello che abbiamo e facciamo quello che possiamo, come quando in aereo ti danno un cibo che non è il massimo ma te lo fai bastare perché il bisogno di mangiare è più forte.
“Fai con quel che hai” è una spinta a stare sul momento, su quello che già c’è a disposizione, perché se lo sguardo è puntato oltre, proiettato in un futuro ideale non potrò mai fare, resterò immobile e bloccato o al contrario inizierò una corsa frenetica ma a vuoto.
Io faccio spesso fatica a fare con quello che ho. Anche adesso che sono qui a scrivere queste righe iniziate due giorni fa che già mi sembra abbiano perso di brio, non abbiano significato, sento quella voce dentro che mi chiede cosa sto facendo, perché lo sto facendo così, approssimativo, sbrigativo, tanto per svolgere un compitino che non andrà bene?
Vorrei parlarvi di tante cose: della bellezza che ho visto in un branco di pesciolini piccolissimi saltare coordinati tra le onde, delle foglie di un albero che stamattina si muovevano come una moviola, delle tante sfumature di azzurro che sto imparando a conoscere, della polvere che ti si attacca ovunque e delle mie unghie perennemente nere e così antiestetiche, dei jambo, mambo, hakuna matata, e dell’ “how are you” chiesto sempre a cui rispondo in modo approssimativo perché mi domando se davvero le persone siano interessate a sapere come sto o sia solo un convenevole all’italiana la cui risposta non importa davvero.
Vorrei raccontarvi delle persone che incontro per strada e del sentirmi io addosso una sensazione strana nell’essere “diversa”, degli animali che girano liberi qua intorno (galline, pulcini, mucche, capre), dei cumuli di rifiuti che vengono bruciati e ti ritrovi a inalare, degli stessi animali che mangiano lì in mezzo, della sensazione di sentirmi addosso anni di storia che hanno contribuito a creare tante disuguaglianze e di stare in quella parte di mondo che le alimenta, del mio interrogarmi su un consumo più consapevole, della possibilità di riconoscere chi ha bisogno e offrire aiuto anche a due passi da noi.
C’è una complessità in questa prima settimana di permanenza qua che non so neanche io come affrontare e che merita un approfondimento che non sono in grado di offrire ora. È una complessità di pensieri, di parti di me che sento sparpagliate in tantissimi pezzetti di un collage disordinato e che non hanno ancora trovato una collocazione. Perché in quella che io chiamo “coerenza” faccio fatica a tenere dentro elementi che mi sembrano così diversi e in contrasto tra loro. E qui mi viene in aiuto ricordarmi quella frase di Walt Whitman che dice:
"Mi contraddico? Certo che mi contraddico! Sono vasto, contengo moltitudini"
Quello che mi posso limitare a fare, forse anche per alleggerirmi, è assumere quelli occhi da esploratore del mondo che permettono di scorgere, osservare, documentare. Portare dentro di me qualcosa da decostruire e ricostruire di continuo e provare a dargliela pian piano un’impronta, una coerenza, senza aspettare che sia perfetto.
Iniziare, ora. Fare ciò che posso, con quello che ho.