È tempo di riaprire il computer e scrivere perché i giorni passano e scivolano via ma vale la pena fermarsi a raccontare. Sono tornata in Italia da meno di dieci giorni e il ricordo di Zanzibar a volte mi sembra una nuvola lontana sfumata via, quasi come se non fossi mai partita.
Mi sembra incredibile come la percezione del tempo cambi forma e intensità a seconda di come decidiamo di viverlo e di rapportarci a quello che succede. Giorni che si dilatano ed espandono quasi a contenere una vita intera e non sembrano appartenere a quel quotidiano in cui arranchiamo nel fare ogni minima cosa e non troviamo spazio per nulla. Tantomeno per noi stessi.
È tempo per me di tirare le somme eppure non mi sento ancora pronta per farlo. Ed è anche tempo, soprattutto, di RINGRAZIARE perché niente è davvero scontato e merita perciò il giusto spazio.
Sono atterrata a Roma lo scorso sabato e ad attendermi in cielo, alle cinque e trenta del mattino, c’era una luna quasi piena, bassa e rossa. Ho interpretato tutto questo come un segnale, un regalo di bentornata, dopo ore in volo nelle posizioni più scomode e assurde mentre continuavo a sognarmi a Zanzibar tra bambine, bambini e persone a me care.
L’impatto con l’ “altra” realtà è stato duro fin dall’aeroporto, anzi, fin da quando ho rimesso ai piedi le scarpe chiuse, inequivocabile segnale della partenza dopo tre mesi di ciabatte e libertà. Le luci artificiali, i rumori, la quantità abnorme di prodotti, lo scalo ad Addis Abeba circondata da persone che si muovevano frenetiche in tante direzioni. La mia stanchezza, gli occhi gonfi dal pianto, stare lì come un automa che compie azioni predefinite e preimpostate senza averne tanta contezza che tanto so già come funziona e quello che devo fare.
“Non sembra vero”
Questo mi ha detto Francesca prima di salire sul taxi e lasciare Nungwi e questa è la sensazione che ho sentito addosso per giorni.
Partivo perché avevo un biglietto e dovevo farlo, pensando di essermi preparata a sufficienza ma in realtà non sentendomi davvero pronta. E non si tratta di un racconto romantico in cui idealizzare quello che ho vissuto a Zanzibar e disprezzare tutto il resto. La realtà è sempre molto più complessa di come appare o si può immaginare da parole e fotografie. Sarei miope e poco sincera nell’affermare che in questi tre mesi è stato tutto splendido e facile e che ho trovato il mio posto nel mondo.
La verità è che dopo un primo periodo di estraneazione, come tra l’altro ho già raccontato qua, ogni cosa è diventata via via più familiare ed è entrata a far parte della mia quotidianità. Soprattutto le persone e la bellezza con cui mi hanno accolta e spalancato il loro cuore.
Tornare in Italia, dopo questo tempo lontana, implicava dovermi riadattare a qualcosa di diverso e fare nuovamente i conti con me stessa e il mio futuro.
In questi giorni ho riflettuto su come la mente filtri lasciando spesso solo i ricordi piacevoli e tendendo a offuscare e progressivamente far sparire i momenti più duri e le difficoltà. Passeggiando per Roma osservo le rovine, i monumenti, gli stili della città pensando a tutte le stratificazioni e le epoche storiche che si sono succedute e domandandomi: posso essere tante cose diverse anche io, ma qual è la mia essenza?
Appena tornata in Italia ho riempito gratuitamente la mia borraccia a Fiumicino compiacendomi di quel servizio e subito ho pensato ai bambini che ho conosciuto che vanno a prendere l’acqua al pozzo. Sono entrata in un negozio e mi ha colpito notare frutta e verdura che sembravano finte, prive di qualsiasi imperfezione e così diverse da patate, carote, banane, avocado, mango e papaya che vendevano nei baracchini per le strade di Zanzibar. Autentici e deliziosi. Ho notato, come mai prima d’ora, la quantità di persone anziane che si muovono per la città accorgendomi quanto in questi mesi sia stata a contatto con tutt’altre fasce d’età. E poi di nuovo la guida e il volante dal lato opposto della strada, il suono delle ambulanze, il caos dei bar e i rumori delle tazzine, la musica in ogni dove sparata ad alto volume fin dal mattino.
“È come una costante sensazione di mancata appartenenza” cantavano i Subsonica nel brano “Cose che non ho” ed è in questa sensazione che ho navigato per giorni.
Davanti allo scaffale degli shampoo mi sono sentita in crisi come non mai, non per la scelta del prodotto in sé ma per quello che rappresentava: una selezione tra tantissime opzioni, un mondo dove hai a disposizione potenzialmente tutto e fai fatica a scegliere. Mi sono sentita perduta.
Farò bene o farò male? Sarà la scelta giusta o sbagliata?
Davanti a così tanto come faccio a capire chi sono davvero e a ritrovarmi? Di cosa ho davvero bisogno?
Ci muoviamo freneticamente, ma dove stiamo andando? Siamo davvero programmati per correre? È questo che significa vivere?
Integrare
Anche il rapporto con la Capitale è stato oggetto di riflessione. Ogni volta che torno percepisco quell’idea di arrancare, del trascinarsi stancamente, del procedere con fatica in una città e in una vita troppo grandi, confuse, incasinate dove tutto è complicato. Rivivo quello che ho sperimentato anni fa e mi ha portato ad andarmene da questa città dicendomi che oggi non tornerei mai a viverci e son contenta delle scelte che ho fatto.
Ma allo stesso tempo Roma è scoperta in ogni angolo, incanto, meraviglia. È storia, popolo che partecipa e si muove, è scegliere chiaramente da che parte stare.
Posso tenere insieme le contraddizioni, la fatica che percepisco e allo stesso tempo la naturalezza nel muovermi in questa città che è stata e ho sentito casa per nove anni. Il senso di familiarità, la consapevolezza su come, dopo un viaggio lontano, tutto appaia incredibilmente più facile fino a quando me ne dimenticherò di nuovo e mi complicherò la vita per qualcosa di poco conto.
Tutto questo per me si ricollega al discorso sull’integrazione affrontato su Instagram dalla psicoterapeuta Lara Pelagotti e il collega Giancarlo Di Maggio.
Ho fatto delle screenshot per non dimenticarmene perché è un tema che mi tocca nel profondo e su cui so di avere ancora tanto da imparare. Ne riporto uno stralcio:
integrare significa riconoscere in sé e/o nell’altro molteplici aspetti, anche contradditori.
“è tanto serio, ma in pizzeria me fà morì”
“Adoro mio figlio ma quando fa così lo caccerei di casa”
“Sono un buon amico ma ogni tanto mi dovrei trattenere dai giudizi”
Sono tornata e ho deciso di fare una tappa a Roma per vivere e respirare il bello e anche un po’ per anestetizzarmi e sentire meno il distacco da Zanzibar. Avevo bisogno di calore, amicizia, accoglienza, di un periodo intermedio e di transizione. Lo sto vivendo e ne sono davvero grata, perché sono sempre più consapevole della fortuna di avere vicino a me tante belle persone speciali e di continuare a conoscerne ancora.
I dubbi e le scelte che sento di dover affrontare forse non devono avere subito risposte. Sono appena tornata e ho bisogno di tempo per lasciar sedimentare quanto ho vissuto negli ultimi mesi.
Forse il vero quesito per me non è partire o restare, ma provare a superare questa dicotomia e formulare altre domande.
Integrare, conciliare, accogliere.
Come mi è stato suggerito e voglio ricordare:
forse non devi scegliere subito tra le due cose. Forse puoi creare un equilibrio nuovo, che onori entrambe le parti: quella che vuole ancora esplorare e quella che desidera radicarsi.
Forse la vera domanda non è “partire o restare"?” ma “come posso costruire una vita che contenga entrambe le cose?”
Bentornata a casa Fra, perché sei TU, prima di tutto, la TUA CASA.
Bentornata ❤️💕 e si in qualsiasi parte del mondo ci troviamo, siamo noi la nostra casa
Ciao Francesca bentornata in Italia❤️ bellissime come al solito le tue riflessioni ❤️un abbraccio fortissimo e buon proseguimento ❤️