É passato un mese dal mio rientro in Italia. Lo scrivo quasi come se fosse necessario quantificare il tempo vissuto e trascorso per dargli maggiore o minore valore, come se anche le esperienze che facciamo debbano essere misurate e rientrare in una certa scala di parametri e performance. É passato un mese e ogni giorno continuo a pensare a Zanzibar, alle bambine e ai bambini che ho conosciuto, alle persone che sono state al mio fianco.
Sono attimi in cui balenano nella testa frammenti e immagini, come la piazza in festa per la fine del Ramadan, la tuta grigia nuova di El-Salum per l’occasione, alcuni sorrisi accennati e timidezze di altri bambini e bambine incontrati nella confusione. Lampi di vita che si intervallano allo scorrere di questo tempo così diverso, diverso per l’ambiente e il contesto in cui abito, per i pensieri che si originano nella mia mente e i bisogni miei e di chi ho intorno.
Mentre pensavo a tutto questo mi è venuta in mente la piramide di Maslow e mi sono resa conto di quanta distanza ci sia nei bisogni da soddisfare tra la maggior parte delle persone che vivono a Zanzibar e questa parte di mondo. Scontato? Sì, ma necessario anche questo per ricordarmi di attivare quella parte attenta a non cadere nel pietismo, in una nostalgia pregna di luoghi comuni, nel perpetuarsi di stereotipi che alimentano il senso di superiorità e la separazione “noi-loro”.
Non è semplice restituire dignità a una narrazione che è complessa, così come rispondere alle domande di qualcuno che mi chiede di raccontare com’è andata o se ho trovato finalmente le risposte che cercavo. Come se mi avesse spinto a partire la necessità di risolvere i miei dubbi esistenziali o come se bastasse un viaggio a farci capire e trovare ciò di cui abbiamo bisogno. Sorrido davanti a queste domande, un po’ mi imbarazzo e mi sento impacciata nel rispondere, prevale quella sensazione antica e familiare di non essere capita, di sentirmi strana, diversa, incapace di raccontarmi e farmi conoscere per davvero.
Sorrido perché mi rendo conto di quanto siamo tutti diversi e quanto a volte gli altri siano rimasti a versioni di noi precedenti, come se alcuni pezzi non combaciassero più e non ci fosse stato l’aggiornamento necessario su percorsi di vita, idee, evoluzioni. O semplicemente perché si intendono le cose diversamente ma c’è la pretesa, da parte di ognuno, di far prevalere le proprie idee e ragioni.
Poi mi dico che anche nella condivisione c’è un nucleo solido che nessuno, neanche chi ci è più prossimo, potrà mai capire davvero perché è solo nostro, una gemma preziosa da custodire, qualcosa di importante di cui solo noi conosciamo intimamente il valore e il significato e che neanche le parole potranno mai spiegare per davvero.
Si tratta di sensazioni, emozioni, stati d’animo semplici e allo stesso tempo complessi, nostri e solo nostri e tutto questo mi fa ricordare come talvolta sia necessario semplicemente viverle, senza affannarsi a spiegarle, capirle, commentarle, condividerle.
Quello che ho vissuto, come in ogni altro viaggio, ha messo in luce con più chiarezza e in maniera amplificata quella che sono, da che parte sto e voglio stare. Ovunque nel mondo, perché quella è la mia natura intima, la mia spontanea attitudine interna che a volte oscuro per compiacere e cercare valore all’esterno dimenticandomi di me.
Il vedermi sotto un’altra luce è avvenuto perché sono uscita dai miei soliti meccanismi, routine, modi di fare ma non siamo necessariamente obbligati a prendere un aereo e andare dall’altra parte del mondo per esplorarlo. Sta a noi renderci conto di quando siamo arenati, bloccati, statici. Come descrive bene il filosofo Vito Mancuso in questo post:
Quando vediamo che non impariamo più, che ripetiamo delle routine, che giriamo dentro un meccanismo che non ci lascia più crescere; quando sentiamo che non c’è più spazio, non c’è più terreno da conquistare, da percorrere; quando il viaggio ci sembra già finito e siamo fermi: quello è il momento di dire basta e cambiare.
Il criterio in base al quale capisci che la tua vita dà pienezza risiede nella gioia. La gioia è una virtù: è qualcosa che possiamo ricostruire, che non dipende dagli altri, non dipende dalle circostanze e dagli accadimenti; è uno stato, è come una colonna sonora della vita.
Per me adesso è il momento di togliere, lasciare andare e concentrarmi sull’essenziale. Svuotare e lasciare spazio affinché ciò che è stato e che ho vissuto possa trovare la sua collocazione.
Quando mi sento smarrita nei miei ragionamenti l’etimologia mi viene in aiuto e allora scopro che la parola “complesso” deriva dal latino complexus, participio passato di complecti, che vuol dire «stringere, comprendere, abbracciare».
Così mi prendo il tempo necessario per stringere, comprendere, abbracciare quelle parti di me che sento ancora scomposte e vaganti, per dipingere quelle sfaccettature di me che magari possono stranire ma mi danno valore perché senza le quali non sarei io.
Ciao Francesca sempre interessante ciò che scrivi le sensazioni che provi complimenti ❤️un abbraccio fortissimo ❤️